giovedì 23 giugno 2011

Il conflitto d’interessi di Angela Vettese, che legge il sublime nei fondi di caffè

Anish Kapoor alla Fabbrica del Vapore, Mlano.


Newsletter del 23/6/2011

Le mostre di Anish Kapoor alla Fabbrica del Vapore e alla Rotonda della Besana di Milano hanno creato qualche inquietudine. Non ovviamente nei 14.000 visitatori registrati in meno di venti giorni dall’apertura. Piuttosto, in quei critici che non perdono occasione di promuovere se stessi anche come curatori di grandi eventi.
Dopo le boutade di Francesco Bonami, che prima denigra l’artista e la mostra (“Vanity Fair” del 1.06.2011) e poi fa marcia indietro (“Gazzetta dello Sport” del 9.06.2011), ora è la volta di Angela Vettese (“Sole24Ore”del 19.06.2011). Il suo articolo riporta informazioni non veritiere, forse Vettese si fa forte del fatto che il “Sole24Ore” non consente smentite o rettifiche (come si dimostra più avanti). Secondo Vettese, le opere di Kapoor alla fiera di Basilea “palesano i meccanismi di promozione che reggono anche le mostre non commerciali”. E aggiunge: “Per qualcuno la cosa può essere volgarmente esplicita, per altri si fa finalmente chiarezza: per esempio, perché al momento ci sono in Italia ben tre mostre dedicate all’anglo-indiano Anish Kapoor, artista sempre d’effetto ma da anni non più innovativo, il cui lavoro strappa sempre il consenso anche di chi non sa niente di arte contemporanea per il suo gioco sui fenomeni percettivi? Chiaro. Le gallerie che ne vendono le opere stanno facendo un’operazione di crescita delle quotazioni, e infatti riempiono i loro stand di sue opere”. Dunque Gianni Mercurio e io avremmo curato queste mostre, realizzate anche con denaro pubblico, dietro indicazione delle gallerie, per favorire i loro interessi di mercato.


Con Anish, giugno 2011


Le falsità espresse dall’articolo esigono una risposta che, spero, aprirà un dibattito nel Web. Le mostre di Kapoor a Milano sono state proposte da me e da Gianni Mercurio a Madeinart, che a sua volta, assumendosi forti rischi economici, ha fatto richiesta al Comune di Milano di intestarsele, di concedere gli spazi e un finanziamento; non sono state proposte da gallerie private, sul cui ruolo si dice più avanti. Gli interessi delle gallerie private e del mercato sono estranei al nostro modo di lavorare.
Ma mentre Vettese accusa (peraltro senza nominarli) i curatori della mostra di aver fatto un’operazione commerciale a sostegno degli interessi delle gallerie, cosa fa lei? Firma uno scritto per una nota marca di caffè, allo scopo di promuovere le tazzine disegnate da Kapoor che stanno per essere immesse sul mercato. Leggete un po’ cosa scrive: “Così una tazza, come tutte le opere di Kapoor, passa dall’arte alla vita e sintetizza in una forma situazioni mentali dolorose quali il dubbio, l’ambivalenza, l’errore ma anche stati felici come il mistero, la sorpresa, il desiderio di capire cosa osservo e di scoprire chi siamo” (il grassetto è nell’originale). Insomma, secondo Vettese la tazzina di Kapoor permette “di capire cosa osservo e di scoprire chi siamo”. Roba da far accapponare la pelle. Per quanto questo testo possa essere stato ben retribuito – sempre che Vettese non lo abbia scritto gratis come omaggio all’artista o alla qualità del caffè (questo ce lo dica lei) –, non vi sembra un po’ eccessivo? Magari Vettese ha avuto chissà quale folgorazione contemplando la tazzina di Kapoor, ma non pensate che queste affermazioni sfiorino il ridicolo? Vi rendete conto che Vettese dà per certo l’interesse delle gallerie in una mostra che ruota attorno a una scultura di acciaio alta 9 metri e lunga 62, ma trova normale firmare un testo che presenta delle tazzine da caffè come capolavori, tazzine reclamizzate nel contesto di una mostra pubblica a Venezia sponsorizzata da una nota marca di caffè e dichiaratamente realizzata e curata da una galleria privata?

La mostra di Kapoor alla Fabbrica del Vapore di Milano ruota attorno a Dirty Corner, una scultura enorme e non certo facilmente vendibile. Su richiesta dell’artista, le sue gallerie private hanno finanziato la realizzazione dell’opera. Come accade regolarmente in tutto il mondo in questo tipo di mostre. Non sarebbe potuto essere diversamente, in quanto non è pensabile che un’amministrazione pubblica finanzi la realizzazione di un’opera che poi qualcuno può vendere. Una pratica del genere sarebbe illegale. Provate a immaginare la gioia dei galleristi che si vedono invitati da un proprio artista a sborsare denaro per la realizzazione di un’opera mastodontica. Di solito le gallerie non possono esimersi di accontentarlo, perché vogliono mantenere un rapporto con lui, ma di sicuro non lo fanno volentieri. Secondo voi Vettese queste cose non le sa?

Nel suo agitarsi, Vettese si lascia andare alla costruzione di notizie non veritiere. Non è vero che quest’anno Kapoor è presente negli stand della Fiera di Basilea più degli anni precedenti. La Galleria Continua, per esempio, quest’anno non ha presentato opere di Kapoor, contrariamente all’anno scorso. In quanto alle gallerie Lisson, Gladstone e Minini, hanno sempre presentato opere di Kapoor nei loro stand a Basilea. Non è vero che Kapoor non propone  da anni un lavoro innovativo: non ha mai smesso di rischiare, presentando lavori ogni volta diversi, sperimentando nuove forme e nuovi materiali, come sa chiunque segua con serenità i fatti dell’arte. Non è vero che Kapoor strappa il consenso per le sue opere basate sui fenomeni percettivi, e lo dimostra l’interesse suscitato dalle sue sculture in cera e metallo o da quelle in cemento.

Il vento sta cambiando nell’intero paese, e si spera anche nel mondo dell’arte. Sta cambiando al punto che da qualche tempo a questa parte può capitare persino che critici  e curatori indipendenti come Gianni Mercurio e il sottoscritto – senza protezioni di alcun genere – arrivino a realizzare una delle mostre più importanti degli ultimi anni in Italia. Denigrarle fa parte di una vecchia strategia. Vettese, del resto, non è nuova a certe inquietudini: quando l’anno scorso Gianni Mercurio ha curato per la Triennale di Milano la grande mostra di Roy Lichtenstein, mostra che sarebbe stata poi ospitata dal Ludwig di Colonia, scrisse un articolo zeppo di notizie non veritiere poi smentite dallo stesso Gianni Mercurio al “Sole 24 Ore”. In barba ai princìpi di correttezza di cui ogni giornale dovrebbe essere garante, la richiesta di rettifica fu ignorata. Giusto per capire la sfrontatezza del personaggio, leggete la lettera non pubblicata dal “Sole”. Adesso, a essere ignorata è stata una mia garbata richiesta di replica fatta ad Armando Massarenti: mi era stato assicurato che sarei stato richiamato dal giornale, ma così non è stato. Negli Stati Uniti, chi giudica le mostre sui grandi quotidiani (questo non vale naturalmente per le riviste di settore) non è egli stesso curatore di mostre per non incorrere in un conflitto di interessi. In un caso del genere è del resto legittimo il sospetto di assenza di obiettività.

Grazie a Internet, chi non accede ai media a grande tiratura può difendersi dai baroni della critica. E si può replicare anche a chi è protetto anche dalla carta stampata: il re è nudo. Passate parola.

Demetrio Paparoni


http://fattoadarte.corriere.it/2011/06/kapoor_a_milano_scontro_tra_i.html

Lettera di Gianni Mercurio al Sole 24 Ore

10 febbraio 2010


Egregio direttore Gianni Riotta,

le scrivo in merito alla recensione a firma Angela Vettese della mostra di Roy Lichtenstein da me curata alla Triennale di Milano, pubblicata da Il Sole 24 ore domenica 7 gennaio Nel pieno rispetto del diritto di critica vorrei replicare ad alcune affermazioni inesatte sulle quali la giornalista basa il suo articolo.

1) Si afferma che la mostra è stata realizzata con “opere relativamente tarde”. Questo è falso e facilmente dimostrabile. In mostra infatti (calcolando solo i dipinti, che sono evidentemente il nucleo più importante) sono presenti:
5 lavori degli anni 50
13 lavori degli anni 60
32 lavori degli anni 70 (questa fu la decade più prolifica per Lichtenstein)
16 lavori degli anni 80
2 lavori degli anni 90 (verso la metà degli anni 90 Lichtenstein si ammalò e morì nel 1997, in questa decade la sua produzione è stata limitata)

2) A proposito delle opere presenti alla Triennale si legge: “Solo alla fine della mostra, purtroppo, vediamo qualcosa del suo modo di operare più noto e più divertente, … non incontriamo i quadri mitici con i baloons, le biondine disperate, …gli uomini con la mascella forte…”. Desumo che la giornalista si riferisca ai celebri “cartoons”. Viene tuttavia difficile pensare che le sia sfuggito che Lichtenstein ha realizzato i suoi i cartoons nell’arco di soli tre anni, mentre le sua produzione si estende per oltre cinquant’anni. Soprattutto viene difficile pensare che le possa essere sfuggito il tema della mostra, incentrata sul suo particolare modo di Lichtenstein di percepire la storia dell’arte e dunque il rapporto con i maestri del modernismo. In altre parole, l’esclusione di certe celebri opere, i fumetti appunto, è una precisa scelta. Mi preme sottolineare in proposito che la mostra è stata coprodotta con il Museum Ludwig di Colonia, uno dei più prestigiosi al mondo, che ha partecipato con il prestito di un numero cospicuo di dipinti. Il Ludwig, che ospiterà l’esposizione dopo Milano, avrebbe potuto facilmente assicurare questo tipo di opere, possedendone molte nella sua collezione. Queste opere di cui il suo giornale lamenta l’assenza, per coerenza con il concept della mostra, non saranno esposte neanche a Colonia.

3) La giornalista parla di mostra “blockbuster” e accusa la Triennale “di apprezzare i grandi numeri ma non l’impianto scientifico”. Se avessi voluto realizzare una “mostra blockbuster”, senza stare a sottilizzare troppo su questioni critiche e scientifiche, avrei incluso appunto le opere (i “fumetti”) per cui Lichtenstein è conosciuto al grande pubblico. Ho operato una scelta coraggiosa sul piano critico e infatti la mostra sta avendo forti riscontri anche a livello internazionale.
A dimostrazione ancora di quanto corrette siano sul piano critico le mia scelte, ricordo che Roy Lichtenstein, in una intervista a Kerstin Ross per la National Gallery of Art di Washington, dichiarò: “even today people do identify me with Pop. I’m sure many still think I’ve only done the comics and the dots, but then people do not deal with art seriosly enough. The general response is rather superficial..” Quanto basta per smentire le opinioni di chi ha recensito la mostra sul suo giornale.

4) Scrive ancora la giornalista: “La sua fondazione (Lichtenstein) non poteva favorire il prestito di opere troppo rare, sta preparando una grande mostra  per il 2011 organizzata dall’Art Institute of Chicago e dalla Tate Modern di Londra….” Ancora una volta si offre al lettore una considerazione errata muovendo da una notizia non corretta. La mostra a cui fa riferimento è prevista infatti (ma non ancora confermata) per il 2012 e non il 2011. È la prima volta che una mostra ideata e prodotta in Italia verrà presentata al Museo Ludwig, diretto da un protagonista dell’arte contemporanea del dopoguerra, il professor Kasper Koenig. In quanto alla Fondazione, non solo questa ha fatto proprio il mio progetto, mettendo a disposizione tutte le opere richieste, ma mi ha anche aperto i suoi archivi  e coadiuvato con il suo personale per quasi due anni. Questo proprio perché il taglio innovativo della mostra offre un contributo nuovo all’interpretazione dell’estetica di Lichtenstein.

Vettese conclude il suo articolo dicendo che dobbiamo “accontentarci” di mostre di questo tipo. Alla luce dei dati che le fornisco in questa lettera: le sembra questa una mostra di cui ci si deve accontentare o la ritiene piuttosto una mostra di cui Milano dovrebbe andare orgogliosa?

Fortunatamente non la pensano come la giornalista autrice della recensione gli oltre 15.000 visitatori che finora, stando pazientemente in fila, hanno visitato e gradito l’esposizione.

Un’ultima considerazione: negli Stati Uniti, che frequento per questioni inerenti al mio lavoro, chi recensisce le mostre sulla stampa non specializzata e a larga tiratura non è sua volta curatore di mostre. In questo modo si garantisce al lettore che il recensore non sia in concorrenza con chi è recensito. La giornalista che ha scritto della mostra è un’abituale curatrice di iniziative espositive (peraltro nella stessa città in cui ha luogo la mostra di Lichtenstein). Se si limitasse a commentare le mostre curate dagli altri, le sue sviste sarebbero percepire in maniera diversa da come, a me e a molti altri, sono apparse, in questa come in altre occasioni.

Ho il piacere di inviarle il catalogo. Se avrà tempo di sfogliarlo, potrà giudicare la scientificità o meno della mostra.

Sono comunque onorato dello spazio che il suo prestigioso giornale ci ha dedicato, in particolare mi ha fatto molto piacere vedere pubblicata in prima pagina, con così tanto risalto, la riproduzione di un’opera in mostra.

Con stima.

Gianni Mercurio

Roma, 10 febbraio 2010

Lo strano arresto di Ai Weiwei il dissidente pop

di Francesco Bonami
da Il Riformista - Sabato, 6 novembre 2010
http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/291625/ <http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/291625/>
Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino. L’artista, dissidente, polemista, provocatore Ai Weiwei è stato, si potrebbe dire “finalmente” messo agli arresti domiciliari nella sua casa bunker nella periferia nord di Pechino.

Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino. L’artista, dissidente, polemista, provocatore Ai Weiwei è stato, si potrebbe dire “finalmente” messo agli arresti domiciliari nella sua casa bunker nella periferia nord di Pechino. Perché “finalmente”? Perché sembrava impossibile che una figura cosi prominente e così apertamente contraria ai metodi del governo cinese potesse essere lasciata circolare senza problemi. Lo avevano già bacchiolato un paio di volte mandandolo quasi all’altro mondo, ma arrestato Ai Weiwei non era stato mai. Lo avevo incontrato in un’intervista per questo giornale in Corea del Sud in occasione della biennale d’arte. Devo dire che non mi aveva particolarmente impressionato per la sua chiarezza d’idee. Il discorso girava intorno alla libertà di parola, ma mai c’era stato un affondo finale che potesse dare a questo artista, recentemente celebrato con una mega installazione alla Tate Modern di Londra, un vero spessore da dissidente doc. Infatti anche il recente arresto domiciliare, pur fatto in modo spettacolare, non sembra avere nulla di drammatico. Ai Weiwei continua a poter parlare al telefono, rilasciare interviste e twittare quanto gli pare. Prima che diventasse dissidente, quando l’avevo incontrato attorno al 2006 proprio nella casa dove ora è confinato, la voce che circolava attorno a lui era quella di una persona molto attenta alla propria immagine e alla propria carriera. D’altronde non meraviglia che per promuovere le due cose, immmagine e carriera, Mr. Ai utilizzi lo strumento della dissidenza dolce. Non mi pare che mai, ad esempio, abbia preso posizioni troppo radicali per la questione del Tibet. Anche le autorità in fondo giocano con questo personaggio che da una parte porta lustro alla Cina, è stato uno dei progettisti del famoso stadio delle Olimpiadi prima di prenderne le distanze perché le autorità (ma guarda che sorpresa!) avevano trasformato i Giochi in uno strumento di propaganda politica. Il recente arresto pare un po’ un’ennesima mossa di questo gioco del gatto e del topo che poi vanno al bar a bere uno spritz insieme. Infatti lo scorso anno le autorità di Shanghai avevano chiesto all’artista architetto di costruire il suo studio in un quartiere industriale per dare il via a un progetto di rivalutazione della zona. Poi all’improvviso, finito l’edificio, qualcuno ha deciso che non poteva più esserci e le stesse autorità committenti hanno ordinato ad Ai Weiwei di buttarlo giù. Davanti a questa assurda decisione l’artista ha deciso di trasformare la demolizione in un grande evento di protesta pop più che popolare che doveva proprio avvenire oggi. L’idea non è andata giù ai politici locali che rischiavano di essere sputtanati davanti al mondo. Cosi ecco che è scattato il blocco di Ai Weiwei. Pare che le forze di polizia, andate a circondare la casa intimandogli gli arresti domiciliari, si siano scusate molto per essere costrette a questa azione nei suoi confronti. A occhio e croce non credo che Ai Weiwei abbia intenzione di competere con Liu Xiaobo, il Nobel per la pace, condannato a undici anni di galera vera, non casalinga. Liu Xiaobo è un vero sovversivo per le autorità cinesi mentre Ai Weiwei sembra essere più un diversivo. Nessuno credo si sia mai scusato con il Nobel per averlo sbattuto in galera. Ascoltando quello che mi diceva l’artista nella recente intervista, mi è parso di capire che lui voglia imbarazzare il potere con polemiche sulla burocrazia e sulla libertà di “chattare” più che su quella di parola. Ai Weiwei vuole obbligare il potere a dare ai cittadini il diritto di parlare dei problemi più che il diritto di risolverli o di non avere problemi. Anche nel caso della demolizione dello studio l’artista lamenta l’impossibilità di discutere della questione magari per arrivare alla stessa conclusione, la demolizione. Anziché incatenarsi alla porta dell’edificio, Ai Weiwei ha organizzato una sorta di festival musicale confermando la sua tendenza un po’ sospetta a voler spettacolarizzare la dissidenza più che approfondirla rischiando di essere buttato in un carcere di massima sicurezza. Ai Weiwei, viene voglia di chiedere, ci fai o ci sei?

Perché penso che Francesco Bonami screditi il mondo dell’arte.

Con Ai Weiwei. Pechino, settembre 2010


Newsletter del 25 maggio
Francesco Bonami non è un critico, non lo è mai stato. La ricerca di sensazionalismo lo ha più volte portato a far propria la tattica secondo cui più la spari grossa, più fai parlare di te. Che poi si parli bene o male, questo sembra essere per lui del tutto secondario. Non contento di essersi coperto di ridicolo affermando che Jannis Kounellis non è un artista significativo, adesso alza il tiro e spara su Anish Kapoor, del quale stanno per essere inaugurate due grandi mostre a Milano, curate da Gianni Mercurio e da me. Seguo il lavoro di Kapoor dal 1981, da allora lo considero uno dei più grandi artisti viventi (non sono il solo, ovviamente). Conoscendolo bene so quanto sia insofferente al potere e alle strategie di piccolo cabotaggio. Uno come Bonami a Kapoor non poteva piacere.
So anche come, con l’insulto attraverso i media ai quali ha accesso, Bonami abbia sempre tentato di demonizzare chiunque non gradisca avere a che fare con lui. Ebbene, adesso, a pochi giorni dall’inaugurazione delle mostre milanesi, Bonami scrive su “Vanity Fair”, tra amenità e volgarità, che il lavoro di Kapoor, alludendo a un vuoto di significati, “come un canto buddista lascia la nostra testa libera dal pensiero”. Ora, si dà il caso che se c’è una testa libera dal pensiero critico è proprio la sua: lo dimostra il fatto che i suoi interventi sono una sequenza di battute a effetto, interventi che con la critica d’arte hanno poco o nulla a che fare. Emulando Emilio Fede, Bonami storpia i nomi di chiunque non accetti di entrare a far parte della sua corte, imitando i comportamenti della classe politica di ieri e di oggi, dedica più tempo alla costruzione del consenso e alle relazioni che a realizzare mostre con un vero progetto critico e che non siano solo un elenco di nomi. Quando scrive, poi, indulge nella battuta per dare a chi frequenta l’arte con poca assiduità la sensazione che d’arte si possa scrivere in maniera comprensibile davvero a tutti.
Fosse solo questo, potremmo anche farcene una ragione: tanto peggio per chi gli dà credito e tanto meglio per chi dal suo lavoro trae benefici. Purtroppo c’è dell’altro, c’è assai peggio. Nel suo sgomitare alla ricerca di posti al sole, il 6 dicembre 2010 Bonami ha scritto su “Il Riformista” un articolo (sotto riportato per intero) nel quale gettava fango su Ai Weiwei, arrivando a sostenere che, rispetto al regime cinese, l’artista oggi in prigione con la pretestuosa accusa di evasione fiscale era più un diversivo che un sovversivo. Secondo lui, l’allora non abbastanza difeso in Occidente Ai Weiwei era stato finalmente messo agli arresti domiciliari”. Ma quello che più mi ha indignato è che l’articolo ricalcava fedelmente quanto anche a me, quando ero in Cina, era stato suggerito di scrivere da parte di collezionisti e galleristi influenti: gente che, come chiunque in Cina sia benestante, trae non pochi benefici dall’attuale sistema di governo. Più volte mi era stato fatto capire che, se avessi scritto quelle falsità, mi sarei accreditato quanto bastava per concorrere a ricoprire qualche incarico museale. Stesso era stato dato ad altri critici, americani, che naturalmente oltre a essersi ben guardati dal gettare fango su Ai Weiwei per screditarne l’immagine in Occidente, si sono fatti carico di promuovere le diverse raccolte di firme a sostegno dell’artista. Gli attacchi di Bonami ad Ai Weiwei e, adesso, a Kapoor (che non a caso in favore di Ai Weiwei ha lanciato una campagna) vanno nella stessa direzione: esprimono il fastidio per chiunque, con la propria visione etica dell’arte e della vita, rischia di smascherare chi invece della vita e dell’arte ha una visione talmente cinica da perdere anche l’ultimo briciolo di dignità.
Per queste ragioni (ma potrei illustrarne molte altre) penso che Bonami millanta di essere un critico e scredita il mondo dell’arte.
Demetrio Paparoni